La campagna di Kamala Harris continua a compiere passi falsi. La settimana scorsa, la vicepresidente ha dato forfait alla cena di gala dell’arcidiocesi di New York, mandando in sua rappresentanza un video di dubbio gusto e ai limiti dell’offensivo. Una scelta quantomeno problematica, visto che, alcuni giorni prima, la governatrice dem del Michigan, Gretchen Whitmer, aveva pubblicato un altro video in cui scimmiottava l’eucarestia indossando un cappellino con scritto “Harris-Walz”. Sempre la settimana scorsa, la vicepresidente è sembrata dare ragione a un manifestante filopalestinese che l’aveva interrotta, tacciando Israele di genocidio: la campagna è dovuta quindi intervenire, precisando che la candidata dem non aveva dato il proprio assenso a quell’accusa.
A peggiorare la situazione ci si è messo un nuovo spot elettorale della Harris, in cui si lascia intendere che i maschi afroamericani saranno rifiutati dalle donne se non andranno a votare. Ricordiamo che, qualche giorno fa, era scoppiato un putiferio, dopo che Barack Obama aveva accusato di sessismo l’elettorato maschile afroamericano, “reo” di non mostrare troppo entusiasmo nei confronti della candidatura della vicepresidente. Ma non è tutto. The Hill ha riferito che, soprattutto negli ultimi giorni, la Harris sta cercando di distanziarsi il più possibile da Joe Biden, che resta un inquilino della Casa Bianca notevolmente impopolare. Piccolo particolare: forse una simile strategia avrebbe dovuto essere adottata già ad agosto, senza attendere le ultime due settimane prima del voto.
Infine, ma non meno importante, al di là delle sviste più o meno estemporanee, la vicepresidente sta scontando anche degli errori di fondo, commessi ad agosto. E ci riferiamo soprattutto alla scelta di Tim Walz come vice e all’aver atteso un mese prima di iniziare a rilasciare interviste. Walz, almeno per ora, più che aiutarla, la sta zavorrando. Fuggire dalle interviste per tutto agosto l’ha messa invece in rotta con quella stessa stampa che non nutriva antipatia per lei e, soprattutto, ha reso molti elettori indecisi piuttosto sospettosi nei suoi confronti.
E attenzione: questi passi falsi stanno rendendo il quadro sempre più problematico per la Harris. I modelli statistici predittivi di The Hill, Nate Silver e dell’Economist attribuiscono attualmente a Donald Trump, sebbene di poco, maggiori chances di vittoria a novembre. Inoltre, secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, il vantaggio nazionale della candidata dem è sceso dal +2,2% di inizio ottobre al +1% di oggi (al 21 ottobre 2020, Biden era avanti di oltre sette punti). La medesima media dà poi il tycoon lievemente in testa in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Sia chiaro: il quadro complessivo continua a rivelarsi quello di una situazione fondamentalmente in bilico, ragion per cui la corsa resta aperta. È però un fatto che dalla metà di ottobre sia Trump il candidato a godere di maggiore slancio.
Premesso che chiunque si sarebbe trovato in difficoltà a essere catapultato in una corsa presidenziale a tre mesi dal voto, è tuttavia chiaro che, se avesse evitato tutti questi passi falsi, la Harris oggi si troverebbe in una situazione politicamente più solida. La domanda da porsi allora è: possibile che la sua campagna non si renda conto di un simile dato di fatto? Che Walz fosse il profilo più debole tra i papabili candidati vice era sotto gli occhi di tutti. Così come è sotto gli occhi di tutti che la Harris ha problemi con un voto, quello cattolico, potenzialmente decisivo in uno Stato cruciale come la Pennsylvania. Non ci voleva un genio neanche a capire che l’impopolarità di Biden avrebbe probabilmente zavorrato la sua vice (un po’ come accaduto a Hubert Humphrey con Lyndon Johnson nel 1968). Un ulteriore aspetto da considerare è che, facendo attualmente campagna con Liz Cheney, la Harris potrebbe aumentare il rischio di defezioni alla sua sinistra: esattamente quello che dovrebbe evitare, se vuole conquistare la Rust Belt a novembre.
Il dubbio allora è lecito. O la campagna della vicepresidente è in mano a coraggiosi visionari che hanno elaborato una strategia geniale ma incomprensibile ai più. Oppure dobbiamo pensare che sia guidata da degli sprovveduti. In realtà, a pensarci bene, fa capolino anche una terza possibilità un po’ dietrologica, ma da non escludere aprioristicamente. E se qualcuno, da dentro, stesse scommettendo contro la Harris? Ricordiamoci sempre che, a luglio, gli astri nascenti del Partito democratico – Gavin Newsom, Josh Shapiro, Gretchen Whitmer – hanno evitato di scendere in campo, per scongiurare il rischio di restare bruciati a tre mesi dal voto. È quindi chiaro che per loro e per quei pezzi di establishment dem che li sostengono la data fatidica non è il 2024: è semmai il 2028. Per questo, forse, la Harris farebbe bene a prestare attenzione a quello che sta succedendo nella sua stessa casa. Al di là dell’unità di facciata, non è affatto scontato che tutti nell’Asinello stiano facendo il tifo per lei.