Con la tragedia di Gaza sullo sfondo, nei giorni scorsi l’attenzione di tutti, anche in Medio Oriente, è stata puntata sugli Stati Uniti, in attesa del voto che ha inesorabilmente assegnato la prossima presidenza al repubblicano Donald Trump, segnando la sconfitta della democratica Kamala Harris. Sui giornali regionali sono usciti diversi articoli che spiegano il modo in cui i paesi arabi hanno guardato alle elezioni statunitensi e quello che si aspettano dal risultato. Ne ha parlato anche Alessio Marchionna, editor di Stati Uniti, nell’ultimo numero della newsletter Americana, un estratto della quale è stato pubblicato anche sul sito: “Nei commenti dal mondo arabo emergono soprattutto una generale ostilità verso gli Stati Uniti per il loro ruolo nella regione”.
Riprendendo un articolo di L’Orient-Le Jour, è riportata la voce di Hana, una donna di 33 anni di Sanaa, la capitale dello Yemen, che esprime un sentimento molto diffuso in una regione che teme di precipitare nella guerra totale. Pur preferendo Harris a Trump, considerato “non sano di mente”, “tirannico” e “irrispettoso nei confronti delle donne”, Hana pensa che “in fondo qualsiasi presidente avrà lo stesso approccio al Medio Oriente” e ricorda: “Noi odiamo davvero tanto l’America”.
La stessa visione emerge dalle interviste fatte da Al Jazeera ad alcuni abitanti nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Anche se in generale riconoscono che l’elezione di Trump potrebbe acuire le tensioni nella regione (“essere più sanguinosa”, come dice Khaled Omran di El Bireh, in Cisgiordania), l’opinione dominante è che le cose non cambieranno. “Nessun presidente statunitense starà dalla nostra parte”, conferma Tahani Arafat, della città di Gaza.
Wafaa Abdel Rahman, di Ramallah, è ancora più esplicita: “Come palestinese, le due opzioni sono una peggiore dell’altra. Ci sembra di scegliere tra il diavolo e Satana. Se Trump vince, credo che la guerra si risolverà a favore di Israele in modo rapido e più violento. La politica di Trump è chiara e nota a noi palestinesi. In entrambi i casi, il risultato è la morte di Gaza”.
In un commento postelettorale, il sito libanese Daraj scrive: “La prima vittima di Trump potrebbe essere proprio la soluzione dei due stati al conflitto israelo-palestinese”. Secondo il giornalista Hazem al Amine, Trump continuerà la politica di avvicinamento tra Israele e alcuni paesi arabi già attuata durante il suo primo mandato “senza risolvere, alla radice, il cuore del conflitto storico tra arabi e israeliani: la Palestina”.
Come è successo per la comunità araba negli Stati Uniti, agli occhi di molti abitanti della regione l’amministrazione dei democratici ha scontato quella che è stata percepita come impotenza, se non complicità, nei confronti degli orrori commessi da Israele nella Striscia di Gaza. Ha continuato a fornire armi e munizioni e, nonostante le critiche e le ramanzine al governo di Netanyahu, non ha mai smesso di sostenerlo politicamente sulla scena interna e internazionale.
Per questo, conferma Anthony Samrani in un intervento su L’Orient-Le jour, Donald Trump ha conquistato terreno tra le opinioni pubbliche dei paesi arabi, anche se sarebbe più corretto dire che i democratici l’hanno perso. Questa logica però è molto pericolosa, sottolinea Samrani, perché “il candidato repubblicano è un isolazionista, che crede solo al rapporto di forza” e potrebbe dare via libera a Tel Aviv per spingersi ancora oltre, approvare l’occupazione di una parte della Striscia di Gaza e del Libano e un intervento diretto contro l’Iran. L’elezione di Donald Trump potrebbe “prolungare la guerra, sia a Gaza sia in Libano, almeno fino al prossimo gennaio”. Dopo il suo insediamento, aggiungerà “una nuova dose di incertezza a una regione già estremamente instabile. Dal caos al caos. La forza bruta, se non accompagnata da una visione politica, non risolverà nulla nella regione. Purtroppo, questa non l’ha ancora capito”.
Diversi osservatori sottolineano che anche tra le monarchie del Golfo c’era poco ottimismo sul fatto che il prossimo presidente statunitense potesse affrontare le radici dell’instabilità regionale e favorire una pace duratura. Giorgio Cafiero su The New Arab nota che l’unica differenza sarebbe stata una politica estera più diplomatica nel caso dell’elezione di Harris, “invece di un approccio unilaterale che sostiene pienamente Israele”, come si prevede con Trump. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono probabilmente contenti di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, che considerano come “un’opportunità per rafforzare ulteriormente le loro ambizioni regionali”, commenta Foreign Policy.
Per quanto riguarda l’Iran si è infranta qualunque speranza che Harris avrebbe potuto cogliere le timide aperture accennate dal presidente Masoud Pezeshkian nei confronti dell’occidente più di Trump, che quando era alla Casa Bianca ha ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Il quadro però è più complicato, aggiunge Cafiero: “È difficile parlare della Repubblica islamica da un’unica prospettiva. All’interno dello stato iraniano ci sono molte fazioni e individui con programmi e punti di vista differenti”. Commentando la vittoria di Trump, il giornale economico Eghtessade Online conferma: “L’elezione del presidente degli Stati Uniti non ci riguarda veramente, perché le grandi linee della politica americana, così come quelle della politica iraniana, sono fisse, e il cambio delle persone non le modifica in modo radicale”.
Dove invece il sostegno a Trump è indiscusso è tra i politici e l’opinione pubblica d’Israele. Non per niente Netanyahu si è affrettato a celebrare “il più grande ritorno della storia”. Secondo i sondaggi riferiti dalla Bbc, circa due terzi degli israeliani si sono schierati con Trump, mentre meno del 2o per cento ha fatto il tifo per Harris. Il dato scende ad appena l’1 per cento tra i sostenitori di Netanyahu. E non c’è da stupirsi: durante il suo precedente mandato Trump ha riconosciuto l’annessione delle alture del Golan e Gerusalemme come capitale dello stato ebraico e ha interrotto i finanziamenti all’Unrwa, oltre ad aver favorito la normalizzazione dei rapporti con diversi stati arabi. L’apprezzamento nei suoi confronti è stato così profondo che Netanyahu l’ha ringraziato dando il suo nome a una comunità: Trump heights, una manciata di case prefabbricate che spuntano nel paesaggio roccioso delle alture del Golan.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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