Mariupol compare spesso nei notiziari della televisione statale russa. La città ucraina, teatro nel 2022 di una lunga e feroce battaglia che procurò la distruzione del 90 per cento degli edifici e migliaia di morti, è descritta come una bellissima destinazione adagiata sul mar d’Azov, dove conviene trasferirsi grazie ai prezzi bassi delle case e all’ottimo clima. In tv viene mostrato il grande lavoro di ricostruzione: condomini, scuole e centri medici crescono come funghi. Si vedono famiglie che avevano perso la loro casa entrare felici in appartamenti nuovi di zecca. E si riferisce che la città starebbe già accogliendo un notevole afflusso di russi.
Mariupol è nel Donbass, la regione dell’Ucraina invasa il 24 febbraio 2022 e in gran parte conquistata dall’esercito di Vladimir Putin, tanto che il 30 settembre 2022 la Russia ne ha dichiarato l’annessione. Di questa terra i giornali e le televisioni occidentali si occupano soprattutto, e giustamente, per documentare l’evoluzione del conflitto tra Russia e Ucraina. Ma ben poco si sa su che cosa stia succedendo lontano dal fronte, nei territori finiti ormai da oltre due anni sotto il controllo del Cremlino. Difficile conoscere la verità inoltrandoci nelle nebbie della propaganda di entrambe le parti. Di certo i russi più anziani hanno nostalgia del Donbass. In un bel manifesto del 1921 la regione è disegnata come un cuore che con le sue lunghe arterie raggiunge ogni angolo della Russia. Erano i tempi in cui l’industria era alimentata dal carbone e il Donbass ne è ricchissimo. I minatori erano il suo orgoglio e non è un caso se la propaganda sovietica scovò proprio qui il lavoratore instancabile Aleksej Stachanov. Ma in quest’area si trovano anche giacimenti di gas, petrolio, ferro, manganese, titanio, uranio e notevoli riserve di metalli e terre rare, fondamentali per l’hi-tech e la green economy. Sono attivi inoltre impianti siderurgici, chimici, metallurgici e metalmeccanici tra i più importanti dell’Ucraina.
Complessivamente il Donbass aveva all’inizio del 2022 oltre sei milioni di abitanti: alla fine di quell’anno però l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha contato circa 2,9 milioni di persone che avrebbero lasciato i territori occupati. Sulla base di queste cifre, la popolazione totale delle aree finite nelle mani della Russia può essere stimata in circa 3,5 milioni di abitanti. In maggioranza sono russofoni ed etnicamente russi e ucraini.
Dal 2014 la popolazione ha vissuto in un clima di guerra civile dopo la proclamazione unilaterale della Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk, i due capoluoghi del Donbass. Prima dell’inizio degli scontri tra i separatisti filo-russi e l’esercito di Kiev, il Donbass rappresentava il 18 per cento del totale del Pil dell’Ucraina. Ma in seguito al conflitto l’economia si è indebolita e il peso del Pil della regione è a sceso a poco meno del 6 per cento sul totale ucraino. Agli analisti del think tank italiano Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa il ricercatore di politica ucraina Konstantin Skorkin ha ricordato che un gruppo di potere «possedeva» il Donbass: «Si trattava di un gruppo di oligarchi composto da ex funzionari comunisti che erano riusciti a impadronirsi di proprietà statali dopo il crollo dell’Unione Sovietica». E hanno convinto i cittadini che l’indipendenza ucraina è stata la fonte di tutti i loro guai e che tornare sotto Mosca avrebbe portato solo vantaggi.
Il regista teatrale Pavlo Yurov, originario della zona di Lugansk, sostiene che «nei territori controllati dalla Russia vivono quattro categorie di persone. C’è chi supporta attivamente le forze d’occupazione, chi magari collabora con queste ultime ma perché vi si trova costretto dalle circostanze, chi è sostanzialmente indifferente a quanto sta succedendo o comunque lo subisce in maniera passiva, chi infine si sente filoucraino e porta avanti attività partigiane di vario tipo».
Nel Donbass Putin si gioca la sua reputazione. Non ha «liberato» l’intera Ucraina come promesso ma solo un pezzo, più o meno il 18 per cento del suo territorio, e ora deve dimostrare di saper ridare benessere e prosperità a queste aree che si sono impoverite moltissimo rispetto al resto del Paese. David Lewis, professore all’Università di Exeter, in Inghilterra, dove insegna politica post-sovietica, riferisce che «accanto a tutti i militari, i soldati, i carri armati che vedi come simbolo dell’occupazione, c’è anche un intero esercito di burocrati che stanno cercando di incorporare questi territorio nello Stato russo. E questo significa trasformare le leggi, introdurre nuovi sistemi fiscali, intervenire nella burocrazia quotidiana della vita, inclusi matrimoni, certificati di morte, immatricolazioni di auto, assicurazione sanitaria, pagamenti delle pensioni». Secondo la fondazione tedesca Scienza e Politica (Swp), un’istituzione scientifica indipendente, l’integrazione dei territori occupati «è di gran lunga il più grande progetto infrastrutturale nell’attuale Russia. In assenza di successi militari tangibili, è anche il progetto di propaganda più importante del Cremlino».
Nell’aprile 2023, riferisce la fondazione Swp, è stato adottato un primo «Programma comprensivo per lo sviluppo socio-economico» delle regioni occupate seguito, nel dicembre 2023, da quello per il «Ripristino e sviluppo socio-economico» del Donbass orientale. Il denaro stanziato all’anno per l’attuazione del programma è di circa 10 miliardi di euro. Una parte significativa di tali risorse viene utilizzata per scopi militari come la costruzione di strutture difensive, mentre in campo civile le priorità si concentrano sulle riparazioni di ciò che è stato distrutto durante la guerra: ripristino delle infrastrutture energetiche, il riavvio delle imprese, la sistemazione di strade e strutture sociali, la realizzazione di alloggi che le persone possono acquistare a tassi particolarmente bassi.
Il primo grande progetto è stato la costruzione da parte dei militari di una conduttura d’acqua di 200 chilometri dal Don nella regione di Rostov a Donetsk, realizzato a tempo di record nei primi mesi del 2023.
Nel settore degli alloggi, l’attenzione principale finora si è concentrata sul recupero e restauro di Mariupol, che Mosca vuole trasformare in una vetrina del ruolo positivo della Russia nei territori occupati. Secondo il capo del Fondo sociale russo, Sergei Chirkov, 2,5 milioni di persone che vivono nelle «nuove regioni» hanno ricevuto lo scorso anno pagamenti per un importo totale di oltre 204 miliardi di rubli (due miliardi di euro): pensioni, congedi per malattia e indennità di infortunio e altri benefici.
Oltre a far arrivare denaro alla popolazione, il Cremlino vuole anche creare condizioni favorevoli per lo sviluppo delle imprese locali e l’arrivo di aziende dalla Russia. Dall’estate del 2023, una «zona economica libera» offre nei territori occupati una serie di vantaggi ed esenzioni fiscali per più anni. Ma dietro queste azioni tese a rilanciare il Donbass orientale e a legarlo sempre più strettamente alla Russia si nasconde un’occupazione che reprime i diritti e le libertà dei cittadini. Per chi si oppone c’è sempre il rischio di subire detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e maltrattamenti.
A nessun segmento della società è permesso di organizzarsi per difendere i propri interessi nella sfera politica. La libertà d’espressione è fortemente limitata. I programmi scolastici e universitari sono stati gradualmente allineati a quelli in uso nella Federazione Russa. Per fare quasi tutto occorre un passaporto russo: aprire un conto bancario, gestire un’attività, ottenere i pagamenti dell’assistenza sociale. Le banche ucraine sono state sostituite da quelle di Mosca, il che sta causando problemi perché non è più possibile inviare denaro a conti correnti russi da quelli ucraini.
La presa di Mosca sul Donbass è sempre più forte. Nonostante gli sforzi del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il ritorno delle regioni conquistate all’Ucraina appare difficile. Anche perché il grosso della popolazione ormai è rassegnata, non desidera altro che soffrire di meno. E avere un po’ di pace.