Il 17 ottobre ha aperto al Cairo, anche se in maniera parziale, il Grand egyptian museum, pubblicizzato come il più grande museo del mondo dedicato a una sola civiltà, con più di centomila reperti in mostra. La struttura dedicata all’antico Egitto è in costruzione da vent’anni ed è costata più di un miliardo di dollari. Non sono ancora aperte le gallerie in cui saranno esposti i tesori della tomba del faraone Tutankhamon, ma i visitatori possono già accedere alle gallerie principali, anche per testare la capienza della struttura.
L’antico Egitto è probabilmente l’oggetto di studio più conosciuto e pubblicizzato della ricerca archeologica in Africa. Ma, come fa notare Le Monde Afrique in una serie dedicata a questa disciplina, nel continente sono in corso altri scavi e lavori di catalogazione importanti, che mettono in discussione l’idea che l’Africa sia un luogo “senza storia”.
Tra le fitte foreste dell’entroterra del Gabon, un’équipe di archeologi gabonesi e francesi sta studiando le tracce lasciate dalle popolazioni di cacciatori-raccoglitori circa 25mila anni fa. In particolare studiano la grotta di Youmbidi, non lontano dal confine con il Congo, che è stata scoperta nel 2015 e che, secondo i ricercatori di un istituto di ricerca collegato all’Agenzia gabonese dei parchi nazionali, fu occupata già in tempi remoti, smentendo il preconcetto che l’ambiente ostile avesse scoraggiato lo stanziamento degli umani. In particolare gli studiosi vogliono capire, a partire dal ritrovamento di semi, come si è sviluppata l’agricoltura nell’Africa centrale. Un altro oggetto di studio sono alcuni campi sopraelevati rispetto alla savana circostante che si trovano a due giorni di strada in direzione della costa atlantica a Nyonié. Scoperti durante dei sopralluoghi aerei, sono grandi anche più di trenta chilometri quadrati e sono stati usati in varie epoche. Si tratta di terrazzamenti molto ampi, “che devono aver richiesto un sacco di lavoro”, commenta l’archeologo francese Geoffroy de Saulieu.
In Nigeria, invece, è in atto una corsa contro il tempo per salvare dall’espansione di una megalopoli come Lagos il sito di una grande città medievale (leggi l’articolo tradotto su Internazionale). “Ijebu – oggi Ijebu-Ode – era un influente centro urbano, che approfittava della sua posizione strategica in un paesaggio politico multipolare”, scrive Le Monde. Molto prima dell’arrivo dei portoghesi, nel 1472, era un punto di scambio delle merci che venivano trasportate sul fiume Niger. A protezione di questa città fu costruita “una fortificazione ad anello lunga più di 160 chilometri, formata da un fossato e da un terrapieno che in alcuni casi raggiunge i venti metri di altezza”. Oggi i lavori di scavo sono portati avanti da una squadra internazionale, di cui fanno parte anche archeologi nigeriani e francesi, avvalendosi della tecnologia di rilevamento Lidar, che combina laser e onde radio, ed è ritenuta molto utile in ambienti coperti di foreste.
Un altro tipo di ricerca è in corso all’università Cheikh Anta Diop di Dakar, in Senegal, dove sono state stipate casse e valigie piene di reperti che facevano parte delle collezioni di un istituto d’epoca coloniale, l’Ifan, ed erano stati raccolti prima dell’indipendenza senegalese, nel 1960. Oltre a quei materiali, ci sono quelli ritrovati sull’isola di Gorée, che fu il fulcro della tratta degli schiavi verso le Americhe, tra cui anche dei resti umani. L’obiettivo dei ricercatori senegalesi è studiare questi reperti da una prospettiva decolonizzata, rispettando le tradizioni e le credenze locali, e garantendo dignità a quei resti. Inoltre questi archeologi osservano la storia di Gorée dal punto di vista delle vittime della tratta, abbandonando una prospettiva occidentale, e spesso si ritrovano a mettere in discussione alcune convinzioni radicate, date per buone solo perché riportate in vecchie fonti scritte, che però non trovano riscontro nella realtà sul terreno.
Un’ampia ricognizione subacquea è stata effettuata sull’altro lato del continente, in Mozambico, come riporta Carlos Mureithi sul Guardian. Una squadra di sub ha scandagliato i fondali intorno alla Ilha de Moçambique per studiare il relitto della nave che si presume sia L’Aurore, un’imbarcazione francese per il trasporto degli schiavi partita da Mauritius e affondata al largo della costa mozambicana nel 1790. L’obiettivo è raccontare la dinamica della traversata: già alla partenza ci fu una rivolta e più di trecento persone furono chiuse a chiave sotto coperta, rimanendo bloccate quando la nave affondò. “L’Aurore è un simbolo di resistenza e di rivolta dei neri, che non volevano essere strappati alle loro terre”, commenta Celso Simbine, uno degli archeologi che partecipano allo studio.
“Pur consapevole del silenzio e dell’ignoranza forzata che circondano il contributo fondamentale dell’Africa e degli africani allo sviluppo del mondo moderno, spesso sono rimasto sorpreso da quanto è difficile accedere alle tracce materiali di questa storia, o trovare forme di memoria locale che rendano giustizia al ruolo svolto dall’Africa”, scrive il giornalista e storico statunitense Howard French nell’introduzione al suo libro L’Africa e la nascita del mondo moderno. Forse, con il contributo dei ricercatori mozambicani, gabonesi, senegalesi, nigeriani, ma anche originari di paesi occidentali, non sarà più così difficile trovare quelle tracce materiali e riconoscere che anche l’Africa ha una sua storia, e che è importante raccontarla.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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